«Interno Frecciarossa. Mi vibra il telefono in tasca: lo tiro fuori in silenzio e, vergognandomi un po’, osservo il display.
Numero sconosciuto.
Avvicino la testa al finestrino e butto uno sguardo fuori: l’Appennino è coperto di neve, il cielo è grigio.
Prendo il fiato e bisbiglio: ‒ Pronto?
Dice: ‒ Ciao, sono M., ti ricordi di me? Ti volevo proporre di partecipare al nostro progetto editoriale: una collana di libri sulle dipendenze.
Dico, a voce ancora più bassa, la mano a conchetta sul telefono: ‒ Dipendenze?! Guarda che io non ne ho. Non bevo il caffè, la Nutella mi fa schifo, le cose pericolose mi fanno paura… Forse, a pensarci bene, c’è il burro di cacao, ma…
Dice: ‒ No, aspetta. Per te avremmo pensato alla dipendenza dal lavoro, nel senso che…
Dipendenza. Dal. Lavoro?
Ops.
Non lo sentivo da due anni, e sta dicendo proprio: ci racconti la tua dipendenza dal lavoro?
Dipendenza. Che parola strana da associare a un lavoro indipendente. Anzi, a quello indipendente per definizione, il mio, quello del free lance, il commerciante di parole. Quello di chi scrive su commissione oppure vende idee, e lavora da solo.
…
Il mio lavoro è il mio nord e il mio sud, il mio est e il mio ovest, il mio mezzogiorno e la mia mezzanotte. Sono il mio boss e la mia segretaria, il mio contabile e il mio scribacchino. Faccio fotocopie, scrivo libri, inseguo i creditori e tengo conferenze. Mi sveglio tra le cinque e le venti volte al mese in un letto non mio. E se è un albergo l’ho prenotato io, come il Frecciarossa e tutto il resto. Faccio tutto da sola. Sono indipendente. Indipendente da tutto. Ed è vero: l’indipendenza genera dipendenza.
Però raccontarla non è facile. Si rischia di scivolare nella tentazione di generalizzare, di elencare le proprie perversioni professionali in forma impersonale, come se appartenessero a tutti i lavoratori-indipendenti- delle-faccende-culturali, cioè a quelli tipo me, che al contrario sono sfuggenti a ogni definizione. Oppure si rischia di soffermarsi su questioni personali e parlare solo di sé, senza accorgersi che per la maggior parte degli altri i miei problemi non sono problemi e le mie felicità non sono felicità, finendo per allungare tiritere introspettive che non interessano a nessuno.
Perché il nostro è un mondo di individualità sconnesse, e la mia è solo una di queste. Ma la mia è anche l’unica che conosca davvero e di certo è l’unica su cui abbia il diritto di pontificare. Non ho alternative: tocca che parli di me».
La pagina Di “Cosa intendi per domenica” sul sito dell’editore
La recensione uscita su D di Repubblica
La recensione di Eleonora Voltolina su articolo36
Il Belpaese di Alessandra Longo su Repubblica
La recensione di Sciltian Gastaldi sul Fatto Quotidiano
Un estratto su InGenere
Una recensione su Libertà di stampa – Diritto all’informazione
La recensione sul blog di Marco Cagnotti
La recensione su Conquiste del lavoro, quotidiano della Cisl